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Riferimenti teorici

Terapia integrata: Psicofarmaci e Psicoterapia

Il trattamento integrato dei disturbi mentali si rende necessario per ovviare ai limiti delle terapie tradizionali, fondate sul modello medico, adottate inizialmente con grandi speranze sulla scia dei risultati eclatanti ottenuti nel trattamento delle malattie organiche. La medicina, infatti, ha acquistato un grande prestigio grazie allo sviluppo di tecnologie in grado di perfezionare in modo stupefacente la capacità di diagnosticare e curare le malattie. Nel campo del nucleare o dell’industria chimica, l’opinione pubblica si interroga e si confronta in forme talora aspre sui rischi e sui benefici delle applicazioni tecnologiche; nel campo della salute, invece, viene data per scontata la fiducia nei confronti delle tecnologie mediche, come confermano i risultati di una recente ricerca della Commissione Europea (2005): «La maggioranza degli europei ritiene che, come accaduto in passato, nei prossimi decenni il progresso scientifico e tecnologico contribuirà a migliorare la nostra vita:il 78% è convinto che renderà la nostra esistenza più salubre, facile e confortevole; l'88% che saremo in grado di sconfiggere malattie come il cancro e l'aids». Sembra quindi tornato in auge l’ottimismo razionalistico che ha inaugurato l’era moderna, illustrato da Cartesio, nel suo celebre Discorso sul metodo, con questi auspici trionfalistici: «E’ vero che la scienza medica com’è oggi, presenta poche cose veramente utili: ma senza volerla disprezzare sono sicuro che nessuno, anche fra coloro per i quali essa è una professione, neghi che tutto ciò che oggi è conosciuto è quasi niente a paragone di ciò che resta da scoprire e che potremmo liberarci da un’infinità di malattie sia fisiche che mentali e forse persino dalla debolezza e dalla vecchiaia, se avessimo una conoscenza sufficientemente ampia delle loro cause e di tutti i rimedi offertici dalla natura».
Da questa prospettiva la terapia in medicina è una procedura scientifica, che non dovrebbe contemplare la possibilità dell’errore, la quale, invece, secondo Ippocrate ne costituiva il fondamento ineludibile e la faceva definire un’arte: «Gli errori, non meno dei successi, testimoniano dell’esistenza dell’arte; qualcosa giovò perché correttamente somministrata, qualcosa nocque perché mal somministrata. Ora dove l’esattezza e l’inesattezza abbiano confini stabiliti, sicuramente esiste un’arte. Assenza di arte è per me assenza di esattezza e inesattezza; ma dove queste siano ambedue presenti, l’arte non può mancare … L’arte è formata da 3 elementi: la malattia, il paziente, il medico. Il medico è il servo dell’arte. Il paziente deve collaborare col medico nel combattere la malattia».
Da questo punto di vista, dunque, la terapia è l’esito dell’arte della guarigione, la quale richiede una stretta collaborazione tra medico e paziente, un “corpo a corpo” serrato e continuo, per combattere un nemico insidioso, subdolo e imprevedibile a dispetto degli straordinari progressi tecnologici.
L’arte della terapia richiede il dosaggio di due ingredienti contraddittori, ma entrambi indispensabili per la guarigione:
1)       La simpatia («soffrire insieme»): il terapeuta è coalizzato con l’altro sofferente, in una stretta alleanza, che implica un investimento affettivo reciproco, contro un male che è sempre nuovo e diverso, anche se è conosciuto da secoli e descritto nei trattati con dovizia di particolari e dettagli.
2)        La “neutralità”, imposta dal rigore professionale, che spinge a vedere il malato come un semplice caso particolare e ripetibile di un oggetto di studio e di intervento e con il quale occorre mantenere la relazione quanto più riservata possibile.
Il timore che la simpatia possa diventare dominante ha spinto a privilegiare sempre di più l’”oggettività”, che ha finito con il diventare una norma prescrittiva, un vero e proprio divieto ad avvicinarsi con calore e simpatia al corpo malato e sofferente; questo deve restare un caso da osservare senza coinvolgimento affettivo in quanto il centro dell’attenzione non sarebbe allora la malattia, ma il singolo paziente, che è solo «un caso» e che tale deve rimanere, pena il grave pregiudizio che ne verrebbe all'arte.
Questo atteggiamento, applicato in modo esasperato, ha portato ad alcune degenerazioni che sono oggetto di molteplici e ricorrenti lamentele da parte dei pazienti e dei loro familiari e sono segnalate sempre più spesso anche dai tecnici: «La tecnologia minaccia di oscurare l'importanza del rapporto medico-paziente e la considerazione del malato come persona, con il risultato che, mentre l'efficacia dell'atto medico aumenta, non aumenta parallelamente la soddisfazione dei pazienti» (Vito Cagli, 2004); «La comunicazione tra medico e paziente: un dialogo tra sordi» (Ignazio Marino, 2007).
Ripristinare l’equilibrio tra tecnologia e contatto umano è tanto più necessario quando si tratta di curare le malattie mentali, poiché in questo campo l’apparato scientifico e metodologico su cui si fondano le applicazioni tecnologiche non è altrettanto solido di quello adottato per le malattie tradizionali.
Tutte le terapie utilizzate per la cura delle malattie mentali sono state introdotte su basi empiriche, “casuali” e non scientifiche, fondate cioè sulla conoscenza esatta delle loro cause. Le prime terapie non impiegavano farmaci, ma cercavano di agire direttamente sul cervello, da sempre ritenuto la sede di tutti i disturbi psichici. L’elettroshock è uno dei tanti trattamenti somatici che, tra il 1930 e il 1940, ebbero larga diffusione e venivano definiti convulsivi in quanto miravano a curare alcune malattie mentali tramite l’induzione di convulsioni. Alla base di questi trattamenti non vi erano evidenze scientifiche sulle modalità con cui le convulsioni agissero sui fattori eziologici delle malattie e li modificassero, ma una ipotesi secondo la quale vi sarebbe stata una correlazione negativa tra la schizofrenia e l’epilessia: si riteneva, cioè - sulla base di osservazioni epidemiologiche empiriche, che si sono poi rivelate imprecise - che coloro che soffrivano di epilessia non si ammalassero mai di schizofrenia, per cui si pensava che l’induzione di convulsioni artificiali avrebbe guarito la sintomatologia schizofrenica. L’elettroshock si rivelò poi del tutto inefficace nella schizofrenia, se non dannoso, mentre aveva una qualche utilità nel trattamento della depressione grave e refrattaria ad ogni terapia farmacologica. La terapia biologica in psichiatria, dunque, non procede dall’eziologia per derivare gli agenti efficaci, come succede in medicina, ma da una presunta efficacia terapeutica “empirica” scoperta del tutto casualmente per ipotizzare una supposta eziologia organica della malattia. Ne deriva che l’efficacia della terapia biologica è quasi sempre solo “sintomatica”, in quanto si ignorano i reali meccanismi eziologici sottostanti, e le teorie eziologiche sono del tutto ipotetiche, in quanto basate sugli effetti empirici di una terapia trovata “per caso”. Questa “debolezza” di base si applica anche alle più moderne terapie farmacologiche. I primi psicofarmaci non sono stati introdotti a partire da evidenze scientifiche e di laboratorio sui meccanismi eziopatogenetici delle malattie, ma dal riscontro spesso casuale che determinate sostanze chimiche miglioravano alcuni sintomi psicopatologici: la clorpromazina, il primo neurolettico introdotto negli anni ’50, e che ebbe una grande diffusione nella terapia della schizofrenia (è tuttora usato anche se con minor frequenza), era un derivato di un farmaco antistaminico, che aveva come effetto collaterale una sedazione importante, per cui si riteneva che potesse essere efficace sulla imponente agitazione che spesso caratterizza la sintomatologia schizofrenica e che veniva allora controllata con i tristemente noti metodi “contenitivi” tipici dei manicomi. Si scoprì solo dopo che questo farmaco, e gli altri analoghi sviluppati negli anni successivi, riducevano il livello di un importante neurotrasmettitore cerebrale, la dopamina, e questo rilievo diede origine della cosiddetta “teoria dopaminergica” della schizofrenia, ossia che quest’ultima sarebbe causata da un eccesso di dopamina.
Il primo antidepressivo introdotto pochi anni dopo era, a sua volta, un derivato di un antibiotico utilizzato nella terapia della tubercolosi: si era osservato che induceva in questi pazienti uno stato di benessere psichico, quasi di “allegria”, per cui si ritenne che potesse essere efficace nel trattamento della depressione. Questa ipotesi si rivelò esatta e nacquero così i primi antidepressivi, i cosiddetti triciclici, che si rivelarono, e lo sono tuttora, assai utili nel controllo della sintomatologia depressiva. Solo successivamente si scoprì che questi farmaci innalzavano la concentrazione di un altro neurotrasmettitore, la noradrenalina e da qui ebbe origine la “teoria monoaminergica” della depressione, ossia che all’origine di questo disturbo vi sia una deplezione di monoamine cerebrali. Poiché la regolazione della noradrenalina si era rivelata efficace nel trattamento della depressione, si pensò che potesse essere utile controllare un’altra monoamina molto diffusa nel cervello, la serotonina; da qui sono nati i cosiddetti “serotoninergici”, farmaci altrettanto efficaci del triciclici nel trattamento della depressione, ma con minori effetti collaterali.
Tuttora gli psicofarmaci utilizzati nella terapia delle malattie mentali si riducono a 3 categorie principali: neurolettici, per le psicosi, antidepressivi, per la depressione, ansiolitici, per l’ansia; ognuna di queste categorie comprende innumerevoli farmaci i cui meccanismi d’azione consistono tuttavia in variazioni impercettibili delle modificazioni recettoriali e neurotrasmettitoriali a carico delle amine cerebrali che hanno dato origine ai capostipiti di ogni categoria: noradrenalina, serotonina, dopamina, GABA. Certamente l’utilizzo degli psicofarmaci ha impresso una svolta determinante nel trattamento delle malattie mentali, consentendo di controllarne le manifestazioni più gravi e devastanti e a limitarne la durata nel tempo, senza dover ricorrere ai metodi contenitivi brutali e violenti che avevano giustificato e legittimato l’istituzione manicomiale. Ancora oggi sarebbe inconcepibile organizzare un approccio preventivo e terapeutico al disagio psichico senza includere l’armamentario farmacologico tra i dispositivi di impiego prioritario, soprattutto nelle fasi dell’urgenza e della acuzie sintomatologica. Tuttavia, la consapevolezza della debolezza dei fondamenti “scientifici” sui quali esso si basa, dovrebbe mettere tutti in guardia dalla tentazione di oscurarla mediante il ricorso alla ideologizzazione tecnologica, dimenticando che l’unico modo ragionevole per ricavarne il massimo dei benefici terapeutici consiste nell’imbrigliarla all’interno di una relazione di aiuto, di sostegno e di accompagnamento costante e durevole nel tempo, ben oltre e al di là dei momenti critici di turbolenza che inducono tutti ad evocare misure drastiche, efficaci e, soprattutto, rapide e definitive.

Psicoanalisi e Psicoterapia Psicoanalitica

L’introduzione del termine psicoterapia nel linguaggio medico-psicologico, che si fa risalire al libro di Bernheim del 1891 dal titolo “Ipnotismo, suggestione, psicoterapia”, ne rivela l’ambiguità originaria: l’effetto terapeutico era affidato alla suggestione, favorita dalla condizione di passività e dipendenza del paziente dal medico. Freud, che si era mosso inizialmente in questo solco, utilizzando l’ipnosi per accedere ai ricordi rimossi nell’inconscio, si rese ben presto conto della transitorietà dell’effetto terapeutico così conseguito; gli sviluppi teorici e tecnici successivi lo portarono a favorire la partecipazione autonoma del paziente attraverso le libere associazioni e a sviluppare una tecnica rigorosa che cercava di escludere qualunque effetto suggestivo, ancorandola a concetti quali: astinenza, insight, neutralità, ecc.
Questa ambiguità originaria mantiene inalterato il suo impatto nel campo della psicoterapia psicodinamica, termine con il quale si designa quella forma di psicoterapia che si ispira alle teorie psicodinamiche sviluppate dalla psicoanalisi ed ai suoi principi tecnici; essa viene designata di volta in volta anche come psicoterapia analitica, psicoterapia ad orientamento psicoanalitico, psicoterapia espressiva, psicoterapia esplorativa, ecc. Tutti questi termini sottolineano il carattere peculiare e distintivo di questo tipo di psicoterapia rispetto alle altre; il riferimento alla psicoanalisi pone in primo piano l’analisi delle difese e l’emergenza di materiale dinamicamente rimosso nell’inconscio attraverso una relazione terapeutica che utilizza i fenomeni di transfert e l’interpretazione.
La derivazione della psicoterapia dinamica dalla psicoanalisi pone il problema della sua specificità e differenziazione, da una parte rispetto alla psicoanalisi, dall’altra rispetto alle altre forme di psicoterapia.
Negli ultimi anni è aumentato in misura enorme il numero di terapie che, proponendosi di influenzare e produrre cambiamenti per mezzo di una relazione, si qualificano come psicoterapie; numerosi lavori hanno cercato di evidenziarne l’affinità sostanziale, individuandola nella combinazione variabile di alcuni elementi di base:
- sospensione o modificazione temporanea delle norme che presiedono alla comunicazione ordinaria;
- ciò consente, tra l’altro, di poter esprimere liberamente sentimenti, emozioni, stati d’animo di varia natura ed intensità, realizzando un effetto “catartico”;
- a questo si accompagna il sollievo determinato dall’accettazione benevola, da parte del terapeuta, di condotte vissute spesso in modo colpevole;
- questo clima emotivo non favorisce solo la scarica emotiva, ma consente anche di interpretare il senso dei sintomi della malattia, ricorrendo a vari modelli teorici.
Questi elementi, presenti in misura e combinazione variabili nelle diverse forme di psicoterapia, mirano alla costituzione di una relazione specifica, spesso chiamata “alleanza terapeutica”; essa costituisce la base (il “quadro” di Winnicott) su cui poggia il processo terapeutico.
In questa ottica la differenziazione delle varie forme di psicoterapia tra di loro sarebbe da attribuire ai modelli teorici di riferimento, che modulano il processo terapeutico facendolo sviluppare con tempi e modalità variabili.
La definizione di una specificità della psicoterapia psicodinamica è più ardua, dal momento che fa riferimento allo stesso corpus teorico e tecnico della psicoanalisi. Il problema è reso ancora più complicato dalla difficoltà di definire ciò che contraddistingue e definisce la psicoanalisi in quanto tale.
Tale difficoltà è da attribuire allo sviluppo, iniziato quando Freud era ancora in vita, di una molteplicità di prospettive teoriche, con modificazioni talora sostanziali dell’apparato metapsicologico, che comportavano mutamenti anche significativi della tecnica terapeutica. E’ sorta così ben presto l’esigenza di individuare i parametri in base ai quali definire gli elementi comuni della pratica clinica; a ciò si correla il problema di stabilire fino a che punto essi possano essere ampliati ed estesi ai quadri teorici generali di riferimento. Questi interrogativi sottendono un’altra questione centrale, quella del rapporto tra teoria e tecnica in psicoanalisi; a seconda di come questo si declina si aprono prospettive contrastanti, che sono state oggetto di un dibattito molto vasto di cui ci limitiamo a fornire schematicamente alcuni nodi problematici:
A) Teoria e tecnica sono strettamente connessi: ogni cambiamento della concezione teorica si traduce necessariamente in metodi e tecniche appropriatamente modificati. Da questo punto di vista possono derivare due implicazioni opposte:
1) prospettive teoriche differenti portano a tecniche d’intervento sostanzialmente differenti, che a loro volta producono dati di osservazione differenti; ne deriva che tra le varie correnti psicoanalitiche non vi sarebbero elementi comuni;
2) gli interventi clinici sono comunque espressione di un metodo clinico condiviso e rispecchiano una teoria altrettanto condivisa, che produce dati di osservazione confrontabili; da questo punto di vista le differenze tra le varie scuole riflettono solo differenze di stile e di linguaggio determinate dalle teorie di riferimento.
B) Teoria e tecnica non sono strettamente connesse; i sistemi teorici generali non dipendono dai dati clinici; la tecnica dovrebbe essere costruita in termini indipendenti dalla teoria e portare ad essa e non viceversa; anche questo punto di vista può portare a due implicazioni opposte:
1) tecniche costruite con materiali clinici differenti possono differenziarsi notevolmente tra di loro fino a produrre sistemi teorici incomunicabili;
2) all’opposto si può sostenere una elasticità delle concezioni teoriche, che possono essere ampliate per inglobare nuove idee derivanti dalla pratica clinica; in questo senso la differenza e il pluralismo delle teorie generali non contrasta con una teoria clinica condivisa.
La definizione del rapporto reciproco della psicoanalisi e della psicoterapia contiene elementi di ambiguità che rimandano a due posizioni contraddittorie già implicite nell’opera di Freud:
- da una parte egli stabilisce una netta distinzione tra psicoanalisi e suggestione, in base alla quale solo la prima sembrerebbe aspirare al ruolo di psicoterapia vera e propria; questa posizione è stata ripresa, ad esempio, da Glover che includeva tutte le psicoterapie, anche di ispirazione psicoanalitica, nel novero delle tecniche di suggestione;
- su un altro piano si colloca la definizione del 1914: “Ogni orientamento della ricerca che riconosce il transfert e la resistenza e le assuma come punto di partenza per il proprio lavoro ha il diritto di chiamarsi psicoanalisi”; questo punto di vista è stato utilizzato per inserire la psicoanalisi nella cornice più ampia della psicoterapia, entro la quale essa si colloca a fianco di altre tecniche.
Se si afferma l’esistenza di una psicoterapia psicoanalitica a sé stante, che si basa sullo stesso corpus teorico della psicoanalisi, si pongono una serie di problemi:
- In che cosa consistono le somiglianze e le differenze? A questo proposito si tende a identificare le prime nella comprensione condivisa della metapsicologia psicoanalitica e le seconde in una varietà di fattori che rimandano principalmente a questioni di tecnica e di setting;
- Ma ciò pone il problema di valutare l’importanza di queste somiglianze e differenze:
- si può parlare di un continuum lungo la linea comune delle psicoterapie, sia pure differenziate dalla scelta e combinazione di procedure tecniche e principi teorici, a un’estremità della quale si colloca la psicoanalisi?
- oppure esiste una specificità delle differenze che introduce una distinzione radicale, qualitativa?
Il tentativo di definire questa specificità è stato affrontato da Eissler[1], nel 1953, attraverso la proposizione di un modello ideale di tecnica psicoanalitica di base; ogni modificazione della tecnica, richiesta da varie situazioni contingenti, viene definita un parametro di tecnica, che deve soddisfare 4 requisiti:
a) deve essere introdotto solo quando è provato che la tecnica di base non è sufficiente;
b) non deve mai andare al di là del minimo inevitabile;
c) deve poter condurre alla sua autoeliminazione
d) le sue ripercussioni sul transfert non devono mai essere tali da non poter essere più abolito successivamente dall’interpretazione.
Sulla base di questa formulazione si può definire la psicoterapia psicoanalitica come una terapia basata su parametri non eliminati e introdotti in modo fisso nella tecnica e nel setting.
I parametri sono stati definiti in modo più preciso da Gill[2] nel 1954 come criteri distintivi della tecnica analitica e distinti in:
A) criteri estrinseci, cioè esteriori o descrittivi della tecnica e in parte sovrapponibili a ciò che si definisce spesso come setting (uso del lettino, numero e frequenza delle sedute, ecc.)
B) criteri intrinseci, che fanno parte integrante della teoria della tecnica e definiscono il processo psicoanalitico vero e proprio:
1) centralità dell’analisi di transfert
2) neutralità tecnica
3) induzione di una nevrosi di transfert regressiva
4) risoluzione della nevrosi di transfert solo o prevalentemente attraverso l’interpretazione.
Secondo questa impostazione la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, di solito ricondotta a variazioni dei criteri estrinseci, viene fondata sui criteri intrinseci.
Resta comunque problematica e tutt’altro che condivisa la natura di questi criteri intrinseci, quanto sia cioè sufficientemente “forte” sul piano epistemologico da giustificare una differenza qualitativa radicale della psicoanalisi.
Su questo piano lo stesso Gill[3], ad esempio, ha modificato sostanzialmente il suo pensiero nel 1979, relativizzando drasticamente proprio l’importanza dei criteri intrinseci; sulla base di una concezione della situazione analitica “a due persone”, ispirata ad una visione “relativistica e prospettica” della realtà interpersonale, egli ridimensiona drasticamente la centralità del transfert; questo non è più concepito come una distorsione della realtà alla luce del passato, ma come una delle tante possibili formulazioni razionali della realtà, alla quale concorre anche lo psicoanalista, con i suoi stimoli e il suo comportamento. Le interpretazioni di transfert devono dunque sempre partire dal presente, sottolineando come esso sia comprensibile nell’hic et nunc della relazione terapeutica, per arrivare alla consapevolezza che è solo verosimile e, in quanto tale, potrebbe essere determinato anche da fattori interni che rimandano a materiale genetico del passato, che va attentamente analizzato. Ne deriva che anche gli altri criteri intrinseci perdono gran parte della loro rilevanza: la neutralità analitica si scontra con l’impossibilità del terapeuta di restare fuori del campo senza influenzare la produzione transferale del paziente, mentre l’induzione della nevrosi di transfert, che potrebbe essere involontariamente suggestiva da parte dell’analista, non apporta alcun materiale utile ad un lavoro focalizzato sull’attualità della relazione. Il principale fattore terapeutico consiste proprio in questo rapporto, basato su una nuova esperienza mai fatta prima: quella “con l’analista nel momento in cui interpreta”. Questo approccio consente un’estensione significativa anche dei criteri estrinseci in modo da configurare una tecnica analitica che può essere utilizzata in una gran varietà di contesti clinici e istituzionali; si afferma, ad esempio, che la frequenza delle sedute può essere variata a piacere, così come la posizione sul lettino (che potrebbe tra l’altro essere fonte di resistenza non analizzabile), poiché si può sempre interpretarne la ripercussione sul transfert; anche se ciò non può essere effettuato in modo esaustivo non viene compromesso nulla, dal momento che non è necessario che ogni analisi sia completa; vengono così legittimate, tra l’altro, le psicoterapie psicoanalitiche brevi.
In questa prospettiva ciò che differenzia la psicoanalisi dalla psicoterapia è l’analisi sistematica del tran
La manipolazione del transfert ci rimanda al tema della suggestione e a quello, strettamente connesso, delle indicazioni terapeutiche della psicoanalisi e della psicoterapia psicodinamica; le modificazioni del setting analitico sono infatti state suggerite prevalentemente dall’estensione delle indicazione cliniche al trattamento analitico e dall’inclusione, ad esempio, di pazienti psicotici o borderline inizialmente ritenuti inidonei per l’impossibilità di sviluppare e analizzare la regressione transferale, che deve essere elaborata e interpretata per produrre un cambiamento significativo; in questi casi il transfert dovrebbe essere “manipolato” per ottenere mutamenti non fondati sull’insight e perciò di natura prevalentemente suggestiva. Non è un caso che il principale impulso allo sviluppo della psicoterapia psicoanalitica sia stato fornito dalla corrente americana definita di Psicologia dell’Io che, a partire dalla seconda topica freudiana del 1922 e dal lavoro di Anna Freud del 1936 sui meccanismi di difesa, ha posto l’accento sull’Io, inteso come istanza dotata di relativa autonomia sia primaria sia secondaria, sulle difese e sull’adattamento. Ciò ha promosso l’esigenza di modificare la tecnica classica per adattarla ai pazienti in funzione della “forza dell’Io”. Gli stessi parametri di Eissler sono stati formulati sulla base della necessità di modificare la tecnica nel caso di condizioni deficitarie dell’Io del paziente, tali da non consentire di tollerare ed elaborare i significati trasmessi dalle interpretazioni; si giustificano così interventi diversi, come le rassicurazioni, i consigli, il ritorno alla posizione vis-à-vis, la prescrizione di un comportamento, ecc. In questa prospettiva l’introduzione di varianti tecniche non altera sostanzialmente la natura del processo psicoanalitico, dal momento che mirano a sostenere temporaneamente l’Io per consentirgli di accedere prima o poi all’insight, che rappresenta comunque l’obiettivo primario della terapia.
La centralità dell’insight per il cambiamento viene invece posta in secondo piano dalla teoria della relazioni oggettuali e dal movimento della psicologia del Sé, sempre a partire dal problema delle indicazioni cliniche. Questi autori, sulla base dell’ipotesi che gran parte della psicopatologia più grave sia da attribuire ad un disturbo delle prime cure materne, sostengono che la funzione primaria del trattamento consiste nel riparare i difetti prodotti da questo fallimento e permettere la ripresa di una crescita evolutiva che si è arrestata; la relazione terapeutica è il vettore primario per conseguire questi obiettivi terapeutici, attraverso fattori relazionali specifici come l’offerta di comprensione e rispecchiamento empatici (Kohut) o la “buona situazione oggettuale” (Fairbairn), che forniscono tutto ciò che l’ambiente traumatizzante ha mancato di provvedere. La schematizzazione un po’ semplicistica di queste formulazioni tecniche mira ad evidenziare come esse possano includere una gran varietà di atteggiamenti e di misure terapeutiche che vanno molto al di là non solo della tecnica analitica classica ma anche delle sue varianti più o meno quantitative prima descritte; in questa ottica risulta molto più sfumata anche la differenziazione tra psicoanalisi e psicoterapia psicodinamica: quest’ultima non si basa più su un aggiustamento tecnico transitorio, ma su un ampliamento della cornice teorica di riferimento, giustificato dal confronto con entità cliniche differenziate, che mantiene tuttavia inalterato il suo valore epistemologico.
Anche dal punto di vista delle indicazioni cliniche siamo dunque rimandati all’ambiguità originaria inerente alla definizione stessa di psicoterapia e alla sua natura terapeutica; su questo piano il riferimento alla psicoanalisi consente di evidenziarne i due poli contraddittori, presenti in alcune recenti formulazioni psicoanalitiche:
- l’obiettivo di “riparare” le conseguenze di danni causati da deprivazioni e traumi precoci, di cui si parlava prima, espressione dello spirito democratico e pragmatico americano, ribadisce la fiducia in un’azione terapeutica “forte”, capace di riparare “difetti”, di costruire “strutture”, di ripristinare la crescita; si può così osservare il paradosso dell’ottimismo terapeutico a volte trionfalistico nei confronti di condizioni cliniche connotate da un’estrema gravità di organizzazione psicologica e di capacità introspettive;
- sul versante opposto si colloca l’obiettivo della costruzione di “narrative“ esistenziali più sane, più utili e migliori dal punto di vista estetico, che implica un obiettivo pragmatico ristretto, rinunciando alla speranza che sia possibile raggiungere la conoscenza di se stessi, del proprio mondo interno attuale e reale di sentimenti, desideri e ricordi e di come questo si articoli con la propria storia “reale”.
Tra questi poli si dipana l’ambiguità immanente nell’obiettivo implicito in ogni progetto psicoterapico mirante al cambiamento attraverso l’insight, che Friedman[4] sintetizza così: “Non possiamo combinare niente con il paziente fino a che non siamo diventati importanti ai suoi occhi. Ma l’importanza che rivestiamo ai suoi occhi è direttamente collegata al modo in cui riusciamo ad adattarsi alle sue strutture. Noi però non vogliamo essere persone che si adattano, vogliamo essere persone che modificano. E proprio qui sta il problema”.
Una posizione intermedia può consistere nel riconoscere alla psicoanalisi una posizione vitale, non solo come corpus teorico, ma come terapia specifica che, applicata nella sua forma più ortodossa e inalterata, costituisce uno strumento di ricerca ineguagliabile, sia come via di accesso alle profondità dinamiche e temporali del funzionamento mentale umano, sia come componente centrale del processo di addestramento alla psicoterapia ad orientamento psicodinamico. Questa, sorta principalmente dalla notevole estensione delle indicazioni cliniche, ha portato ad una riflessione critica assai ampia sulla natura dei fattori e dei meccanismi terapeutici, rivelandone la presenza trasversale in un ampio range di dispositivi psicoterapici (inclusa la psicoanalisi stessa); non si tratta allora di occultare la varietà e la differenza di tali fattori - connessi strettamente a modificazioni del setting di rilevanza sostanziale e non solo formale - per rimuovere un sentimento di “inferiorità” e rivendicare una condizione di pari dignità, ma di esplorare fino in fondo tale “diversità” per precisare meglio la definizione e la comprensione dei propri ambiti di pertinenza clinica e teorica. Questo approccio ha prodotto sviluppi particolarmente originali nel campo dell’istituzione psichiatrica, a partire da una vasta gamma di contributi di varia natura miranti a conferirle “qualità psicoterapiche”.
Il ruolo della psicoterapia nell’istituzione psichiatrica pubblica si colloca su due piani distinti ma tra loro correlati:
1) assetto dell’istituzione, della sua organizzazione e delle diverse strutture in cui si articola, in modo da espletare una funzione terapeutica globale, indipendentemente dalle singole tecniche specifiche adottate;
2) adozione di interventi psicoterapici specifici in contesti peculiari e per determinate categorie di pazienti.
Il secondo piano ripropone sostanzialmente i problemi teorici e tecnici descritti in precedenza, mentre il primo offre una gran varietà di stimoli e di sollecitazioni alla riflessione critica, che ha apportato un contributo notevole alla riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica pubblica.
La valorizzazione della funzione terapeutica dell'istituzione psichiatrica rappresenta, infatti, il compimento di un lungo travaglio critico, iniziato poco dopo la prima guerra mondiale, sulla scorta della crescente e diffusa consapevolezza del fallimento delle aspirazioni terapeutiche dell'ospedale psichiatrico, che ha condotto in due direzioni:
- da una parte la denuncia del ruolo anti-terapeutico del manicomio, supportata dal riconoscimento e dalla dichiarazione della sua funzione politica di repressione della devianza sociale, attraverso il suo etichettamento abusivo di "malattia psichica". In questo senso vanno una gran mole di studi sociologici sulla funzione e sul ruolo del manicomio e un vasto movimento "anti-istituzionale", che si è ben presto diffuso dagli Stati Uniti all'Europa;
- dall'altra parte un radicale mutamento di prospettiva nell'approccio all'istituzione psichiatrica, che ha introdotto, accanto alla matrice originaria di natura ideologica e biologico-positivistica, punti di vista diversificati. Questi attingevano ai contributi delle scienze umane e sociali che, a partire dagli anni '30, hanno dato un apporto rilevante allo studio dei fenomeni sociali e collettivi, alla loro struttura e organizzazione e, di conseguenza, alla possibilità di prevederli, controllarli e utilizzarli in modo efficace.
Questa seconda prospettiva è scaturita dal riconoscimento della funzione essenziale svolta dai piccoli gruppi nella percezione, da parte dei singoli, dell'ambito sociale e dei suoi valori, sia in quanto fattore di sviluppo personale sia in quanto fonte di costrizione; ciò attribuisce all'istituzione assistenziale una funzione dinamica e relazionale a fianco di quella statica di semplice contenimento, che può avere evidenti implicazioni mutative e terapeutiche. Questi contributi si possono far risalire alla teoria del campo di Kurt Lewin[5], il quale, nell'ambito della psicologia della Gestalt, fu particolarmente interessato dagli studi sull'elettromagnetismo, che portavano a considerare i campi magnetici come entità strutturali e non come la somma complessiva degli effetti generati dalle singole particelle; egli operò così una trasposizione metodologica del concetto di "campo" dalla fisica alla psicologia, per la quale "ogni fatto dev'essere considerato come qualcosa che si verifica in un campo, e cioè come una parte di un insieme di fatti coesistenti e reciprocamente interdipendenti. Le proprietà di un determinato fatto sono perciò determinate dalle sue relazioni con la struttura alla quale il fatto appartiene, e i cambiamenti che si verificano sono collegati ai cambiamenti intervenuti in altri elementi componenti la struttura in uno spazio e in un tempo determinati". Perciò, il comportamento individuale può essere concepito come funzione dinamica tra la "persona" e il suo "ambiente", iscrivendosi in un campo psicologico costituito dalla totalità dei fatti coesistenti che lo determinano in un dato momento; lo stesso ambiente, a sua volta, è funzione della persona, perché la sua struttura dipende da variabili psicologiche quali i bisogni del soggetto, i suoi scopi, le sue motivazioni, le sue percezioni e i suoi ideali.
L'estensione di questi concetti alle collettività consente un approccio alla dinamica dei gruppi: anche questi vanno concepiti come totalità dinamiche dotate di particolari proprietà distinte da quelle degli elementi che le costituiscono e caratterizzate dall'interdipendenza dei loro membri, da cui scaturiscono le forze che determinano l'evoluzione del gruppo e i suoi movimenti.
Questi contributi rappresentano i primi tentativi di un approccio socio-psicologico all'istituzione, intesa come un tutto funzionante in modo altamente organizzato, nei suoi aspetti sia formali che informali, e analizzata in modo sistematico nella sua interazione con i sintomi del paziente e, di conseguenza, con la sua evoluzione clinica, comprendendo in ciò anche il ruolo del compito terapeutico.
Questo approccio trova la sua formulazione più compiuta e significativa nel celebre studio di Stanton e Schwartz[6] effettuato sull'esperienza di Chestnut Lodge nei primi anni '50.
Essi postulano l'assunto che l'ospedale differisce dall'ambiente esterno, così da favorire il miglioramento del paziente, non tanto per i trattamenti specifici disponibili al suo interno, quanto per il tipo di contatti che il paziente ha con altre persone, pazienti ed operatori; attribuiscono un'importanza primaria alla comunicazione, analizzandola nella sua derivazione dal processo istituzionale e nella sua relazione con esso; si soffermano sulle modalità che conducono alla comprensione o, viceversa, all'incomprensione, e sottolineano le importanti implicazioni che il "consenso" riveste per il processo terapeutico di pazienti molto disturbati, rafforzando il senso di sicurezza di pazienti che "disperano di raggiungerlo su questioni di importanza personale, di essere cioè realmente compresi"; questo è così prezioso che si tende a mantenerlo anche a spese dell'esercizio delle funzioni critiche. I sintomi psichici vengono visti come l'espressione di un disturbo delle dinamiche interpersonali che presiedono al consenso, spesso parzialmente inconsapevoli, e che devono essere portate alla luce per rimuovere le condotte patologiche. Gli autori analizzano poi l'organizzazione formale della comunicazione nell'istituzione, prevalentemente orale, mostrando come essa sia in generale distorta, principalmente per omissione e selezione, secondo modalità rilevanti per la struttura istituzionale e il ruolo occupato in essa dagli operatori; vengono così costruiti insiemi stabili di opinioni intorno a un paziente da parte di tutta l'équipe, che forniscono una guida automatica e largamente inconscia per interventi significativi sul paziente. Questa "reputazione" è un fattore dinamico significativo nel mantenere stabile un certo stato patologico, ma possiede anche una sua funzionalità, rappresentando una caratteristica del posto del paziente nell'istituzione e il modo in cui l'istituzione si adatta a questi. La "reputazione" e altre incomprensioni sono sempre contraddistinte dall'assenza di informazioni pertinenti, che diviene particolarmente complessa e problematica nel caso delle "comunicazioni confidenziali".
Il blocco della comunicazione formale produce canali informali supplementari, di solito più lenti e meno efficienti di quelli formali, ma ai quali molti membri dello staff tendono a dare un valore maggiore che ai secondi: "i rapporti formali e informali sullo stesso episodio sono entrambi distorti ma, poiché‚ di solito lo sono in modi diversi e per scopi diversi, insieme possono presentare un quadro più completo se l'osservatore è recettivo ad entrambi i rapporti".
Gli autori concludono lo studio analizzando alcuni sintomi particolari mostrati dai pazienti, ad esempio l'incontinenza, cercando di vedere come si inseriscono nel sistema sociale dell'ospedale; essi rilevano, ad esempio, che ogni volta che un paziente mostrava un eccitamento maniacale era sempre oggetto di disaccordo tra due operatori, che erano spesso inconsapevoli del loro disaccordo; da ciò non deriva che l'ambiente possa "causare" un sintomo: "la causa può essere un mosaico composto di diversi elementi e il sintomo richiede per instaurarsi, e forse anche per continuare, il concorso di particolari circostanze e di pazienti con particolari vulnerabilità". L'implicazione sul piano terapeutico è che se le cose stanno così, le circostanze ambientali, in particolare quelle istituzionali, possono essere precisamente identificabili e venire controllate in senso modificativo e terapeutico sulle condotte patologiche dei pazienti.
L'approccio psico-sociologico all'istituzione psichiatrica ha assunto in Europa e particolarmente in Francia, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, un'ottica peculiare contraddistinta, da una parte, da una critica socio-politica dell'istituzione manicomiale nella sua funzione repressiva e, dall'altra, dall'impiego del referente psicoanalitico. In questo campo l'esperienza forse più emblematica e significativa è quella di autori come Lebovici, Diatkine e Racamier[7], a partire dalla convinzione che l'osservazione del malato da solo non è sufficiente, in quanto il suo disturbo mette in evidenza il disturbo dell'intero gruppo ospedaliero, apportando la prova di alcuni fatti di "partecipazione sociopatologica", definiti con il termine di "ospitalismo psichiatrico": incontinenza, stereotipie, agitazione, ecc. Questo contributo si colloca nel contesto del movimento di critica istituzionale, che ha avuto un ruolo rilevante sia negli Stati Uniti che in Europa nel denunciare gli aspetti repressivi e nocivi dell'istituzione manicomiale.
Il contributo più originale di questi autori consiste nell'avere, contemporaneamente, evidenziato il potenziale ruolo terapeutico dell'istituzione psichiatrica, utilizzando il punto di vista psicoanalitico, ma precisando che questo non semplifica i compiti istituzionali, anzi restituisce loro la vera complessità e densità essendo assolutamente inadeguato mescolare strutture nevrotiche e strutture psicotiche e, correlativamente, confondere la presa a carico istituzionale con l'esercizio della psicoterapia. Gli autori ricordano che, in quanto organismo di cure, l'istituzione esercita una funzione basale di presenza, dal momento che "molte manifestazioni e molti sintomi psicotici hanno come funzione principale di ricordarci la loro presenza e di invocare la nostra"; ma si tratta sempre di una presenza aleatoria e problematica, per cui "la presenza curante dovrà rendersi il più possibile assimilabile e poco temibile: stabile, disponibile, morbida e non opprimente"; inoltre, ai malati più angosciati dall'approccio relazionale il contesto collettivo offre un margine di manovra maggiore rispetto alla relazione individuale: essi vi potranno organizzare posizioni mediate, senz'altro difensive, ma in modo strutturante.
L'istituzione svolge, inoltre, importanti funzioni di aiuto all'io psicotico: questo, infatti, in alcuni casi abbandona completamente alcune funzioni essenziali, anche vitali, in altri "delega al suo entourage larghe frazioni del suo io... si potrebbe dire, esagerando, che il suo io sono gli altri". Questo abbandono inconscio del sé da parte dell'io giustifica la ragione profonda e generale della necessità istituzionale: "coloro che hanno bisogno di un organismo di cure sono coloro che non tengono più nelle proprie mani l'insieme dell'attività funzionale del proprio io".
La funzione terapeutica dell'istituzione si articola dunque a vari livelli, in funzione del grado di spezzettamento, di dispersione proiettiva e di spossessione di sé dello psicotico: a un estremo la cura consiste nel sostituirsi alle funzioni disinvestite dell'io, ma cercando sempre di non farlo completamente, bensì di "fungere da sostituti, stimolanti, rappresentanti o garanti; occorre poi trovare il mezzo tecnico per "rappresentare progressivamente la coesione del malato in quanto soggetto senza mutilarlo e senza spossessarlo": "al limite si può trovare che non ci si può rivolgere al paziente se non attraverso il suo entourage significativo". Infine, in una delle tappe più evolute della riorganizzazione psichica del malato e della reinteriorizzazione della sua realtà psichica, la cura consisterà solo nel farsi garante dell'unità del soggetto e del funzionamento del suo io.
Il "motore" principale della relazione terapeutica consiste nell'identificazione, che può riguardare non solo sentimenti o atteggiamenti, ma anche il funzionamento dell'io: "per un malato, il constatare che dei curanti, che si prendono cura di lui, pensano, guardano, coordinano, sopportano la frustrazione, rifiutano la sofferenza inutile, provano collera e se ne servono, si riposano... tutto ciò comincia a contribuire a permettergli di fare o di concepire altrettanto"; essa verte dapprima su una sola persona, poi su due e sempre, e molto più rapidamente di quanto non sembri, investe l'insieme dell'istituzione in quanto essa pure costituisce un organismo: "ciò rende così importanti l'equilibrio dell'insieme dell'équipe, la struttura dell'insieme dell'istituzione e il suo modo di funzionamento effettivo".
Gli autori precisano poi le basi tecniche della terapia istituzionale:
1) occorre strutturare l'istituzione: "l'équipe curante si deve configurare come un insieme, che sia accogliente o, più precisamente, che sappia contenere la personalità dei malati, non nel senso della contenzione fisica, ma nel dare asilo";
2) occorre istituire delle regole, ma che siano esplicite e intelligibili, motivate e fondate su motivi realistici: ogni paziente deve essere in grado di conoscerle, comprenderle e anche modificarle;
3) occorre preservare la relativa opacità del reale, nel senso che l'istituzione non va considerata una pura e semplice riserva simbolica, ma occorre comprendere il meglio possibile ciò che avviene nella vasta rete delle relazioni istituzionali;
4) rispettare le tappe evolutive, cioè collocarsi nelle cure al livello dell'io del paziente, il che esige che si sappia apprezzare il funzionamento dell'io non tanto nei suoi aspetti propriamente difensivi, quanto nelle altre capacità funzionali, in ciò differenziandosi profondamente dalla pratica della psichiatria dei sintomi; il compito principale della cura istituzionale consiste nel tollerare le tappe evolutive, permettere loro di organizzarsi nel concreto quotidiano, riconoscerne l'aspetto positivo, prima di spingere più attivamente il paziente verso una nuova tappa;
5) sapersi assumere certi rischi, ma solo quando l'équipe può assumerlo senza sofferenza, se ha provato che sa rifiutare il rischio folle, se il rischio scelto è conosciuto, calcolato, se è condiviso dai familiari del malato, infine e soprattutto se l'assunzione di questo rischio presenta senza alcun dubbio, per il malato, una virtù rassicurante;
6) utilizzare i processi spontanei, ad esempio i movimenti affettivi dei medici, degli infermieri e dei malati verso i malati stessi, che non hanno sempre una funzione difensiva e distanziante ma, rappresentando reazioni indotte dalle posizioni inconsce dei pazienti e, in modo più generale, tutto ciò che gli psicotici non assumono più come loro compito, possono fornire un utile apporto al completamento della loro personalità.
In base a questi principi generali, la tecnica della cura istituzionale deve essere:
- intensiva: nel senso di abbracciare l'individualità del paziente e non solo le sue perturbazioni manifeste;
- estensiva: nel senso che abbraccia l'entourage del malato nei rapporti che si stabiliscono dall'uno all'altro e non il malato isolatamente;
- collettiva: nel senso che è il prodotto di un'équipe e non di un medico isolato.
L'esperienza istituzionale italiana è stata caratterizzata, a partire dagli anni '60, dal forte risalto assunto dal movimento anti-istituzionale che, con la denominazione di Psichiatria Democratica, ha condotto una serrata critica ideologico-politica del ruolo repressivo svolto dall'ospedale psichiatrico in una realtà socio-culturale e assistenziale assai degradata rispetto ad altri contesti occidentali. Questo movimento ha svolto un'importante funzione di "traino": ha sollecitato un'estesa serie di iniziative di modificazione del nostro panorama istituzionale, sollevando una vasta eco, che si è diffusa anche oltre confine, e contribuendo a identificare l'apporto del nostro paese al rinnovamento psichiatrico con la "negazione" dell'istituzione.
In realtà, e nello stesso periodo, sono state condotte anche in Italia significative esperienze di rinnovamento assistenziale che si sono ispirate sia alla prospettiva psico-sociale di matrice anglosassone, sia ai contributi della psicoanalisi, tentando un approccio critico all'istituzione che ne recuperasse anche le potenzialità terapeutiche. Tra queste iniziative assume un rilievo particolare quella condotta da De Martis, Petrella e dal loro gruppo di lavoro[8], soprattutto per l'impegno costante e prolungato nel tempo nell'attività psichiatrica pubblica. Questo impegno è stato contrassegnato da un continuo confronto con il referente psicoanalitico, condotto secondo una prospettiva critica che presenta molte analogie con l'esperienza francese di cui si parlava prima:
- il suo utilizzo, innanzitutto, per rivitalizzare in senso relazionale un apparato nosografico sclerotizzato;
- l'analisi critica dei processi di "socio-patogenesi" istituzionale nella pratica manicomiale;
- la rivalutazione del ruolo istituzionale attraverso un suo legame con la realtà territoriale.
Queste esperienze istituzionali “storiche” hanno posto le fondamenta di un approccio psicodinamico all’istituzione psichiatrica che, dall’ospedale psichiatrico in cui si è inizialmente sviluppato, si è successivamente esteso ai nuovi contesti previsti dalla riforma assistenziale agli inizi degli anni ‘80. In questo processo ha assunto un ruolo centrale la riflessione sul setting, inteso come insieme di elementi esteriori costanti, a cui paziente e analista si devono attenere (attraverso la stipulazione del contratto) e all'interno dei quali si dànno il processo e la relazione analitica: le situazioni clinico-relazionali richiedono un setting definito e quello dell’istituzione psichiatrica è specifico e peculiare.
Su questa tema un grande contributo è stato apportato dagli sviluppi teorici che, iniziati con Melanie Klein, hanno spostato l'accento dalla centralità edipica alle dinamiche più precoci del funzionamento mentale, comportando sia una revisione dei precedenti criteri di analizzabilità, che prevedevano una sufficiente integrità dell'Io del paziente, sia un allargamento dell'attenzione sul setting ed il suo significato con pazienti particolarmente regrediti o il cui stadio di sviluppo non ha raggiunto livelli di sufficiente integrazione. L'estensione del campo di riflessione è giunto sino alla considerazione del setting istituzionale all'interno del quale vengono curati questi pazienti.
La riflessione teorica sul setting prende inizio in Winnicott[9] dall'osservazione del diverso atteggiamento di pazienti nevrotici e psicotici in analisi. Egli afferma che "Quando vi è un Io intatto...il setting è secondario rispetto al lavoro interpretativo, mentre qualora venissero in primo piano i livelli più primitivi della mente, che, nelle fasi di sviluppo infantile non solo precedono la formazione di un Io autonomo, ma preludono alla definizione del Sé e richiedono costanti ed adeguate cure materne, allora il setting diventa più importante dell'interpretazione, perché riproduce le prime, primissime tecniche delle cure materne. Invita alla regressione grazie alla sua stabilità e sicurezza...Il paziente ed il setting si fondono nella felice situazione originaria del narcisismo primario". Anche l'atteggiamento dell'analista viene incluso da Winnicott nel setting, dunque analista-madre-ambiente e setting come fattori d'importanza "..vitale nell'analisi di uno psicotico, a volte, effettivamente più importanti delle interpretazioni verbali che pure devono essere date. Per il nevrotico il divano, il calore ed il benessere possono simbolizzare l'amore materno; per lo psicotico sarebbe più esatto dire che queste cose sono l'espressione fisica dell'amore dell'analista".
Il setting psicoanalitico con pazienti gravi non ha più il significato di sfondo, ma figura, tanto è vero che Winnicott parla di situazione analitica, sottolineando in tal modo l'aspetto direttamente terapeutico: "Se il comportamento dell'analista è sufficientemente buono per quel che riguarda l'adattamento al bisogno, viene gradualmente percepito dal paziente come qualcosa che fa sperare che il vero Sé riesca finalmente a correre i rischi che l'inizio di un'esperienza di vita comporta".
Bleger[10] individua una stretta affinità fra le strutture che costituiscono il setting e quelle istituzionali, fino a considerare il setting come il deposito istituzionale del processo analitico; ciò discende dal fatto che l'istituzione, così come il setting, si può definire come una relazione, o un insieme di relazioni, che si protrae per lungo tempo e che è regolata da una serie di norme condivise; ne consegue una particolare esperienza di continuità tra sé e l'oggetto presente, che si fonda principalmente sulla "sensorialità", indipendentemente dalle singole vicende che intercorrono tra i membri del rapporto. Questo livello dell'esperienza è muto, non consapevole e non avvertibile; l'individuo può solo avvertire sensazioni fisiche di benessere o di malessere, espansione o contrazione, rigidezza o elasticità, rivelando un livello simbiotico-fusionale; questo si manifesta principalmente in momenti di rottura, lutto e frantumazione del contesto, determinando una falla nella organizzazione del sé corporeo, una modifica della percezione del funzionamento della propria sensorialità. L'istituzione diventa così, in modo muto e non avvertibile, il deposito di una serie di esperienze sensoriali corporee che sono vissute come condivise e non più individuali, differente dal piano delle identificazioni proiettive; esse costituiscono il cosiddetto "io sincretico", cioè l'io diffuso e sedimentato nel setting come un aspetto amplificato e corporeizzato dell'intera personalità. Questa esperienza soggettiva di una condivisione con il gruppo istituzionale di alcuni aspetti molto fisici di sé si impregna di particolari fantasie, che le conferiscono un valore particolare e prezioso, fino ad essere idealizzato sia pure in modo muto e non consapevole. Tutto ciò ci consente di comprendere la profonda intensità emotiva dei fenomeni istituzionali: la drammaticità delle rotture, il valore strutturante delle abitudini, dei riti, dei contratti ripetuti, l'effetto devastante della rottura della continuità, ma anche le reazioni scomposte al nuovo e la tendenza al conservatorismo e alla ripetizione. L'introduzione di cambiamenti o modifiche nell'assetto istituzionale deve perciò tener conto dell'esistenza di questo piano e dell'attrito che può derivare dall'impatto con il cambiamento proposto.
Il contributo di Bion[11] all'istituzione inizia con il riconoscimento, nella vita dei gruppi, di una dicotomia inconciliabile tra due stati mentali:
- il gruppo di lavoro, permeato di razionalità, può stare a contatto con la realtà e tollerare le difficoltà e il dolore, per cui è capace di sviluppo e di crescita;
- il gruppo dominato dagli assunti di base è fondato sull'attivazione automatica e violenta di emozioni intense e incontrollate, biologicamente determinate, connesse con la dipendenza, l'ostilità e l'accoppiamento.
La successiva introduzione del concetto di "gruppo di lavoro specializzato", come l'esercito o la chiesa, che consente una gestione organizzata dell'emozione connessa ad un assunto di base, conduce al concetto più evoluto e complesso di istituzione: questa nasce come un gruppo di lavoro organizzato che ha lo scopo di sviluppare e diffondere un particolare complesso di idee e rappresentazioni investite di grande valore; questo può, a sua volta, suscitare intense emozioni strutturanti, capaci di indurre un potente coinvolgimento affettivo; l'istituzione finisce così per svolgere l'importante funzione di conservare e perpetuare un patrimonio impregnato profondamente di valenze emotive. In questa prospettiva è implicito il rischio di un processo di istituzionalizzazione: processo per cui un gruppo si irrigidisce in un mantenimento fisso e burocratizzato del proprio patrimonio storico, privando il nucleo fondante originario, apportato da un personaggio innovativo e creativo, del suo valore fecondativo e della sua capacità di vitalizzazione e rinnovamento. Ne deriva che ogni istituzione rimanda a un nucleo emotivo-rappresentativo fondante, che ne costituisce la sorgente originaria di vitalità emotiva e permea di sé il gruppo e la soggettività in esso circolante; ogni cambiamento implica, di conseguenza, una modifica di un certo assetto emozionale di base e delle valenze salvifiche o messianiche ad esso connesse.
L'approccio socio-analitico all'istituzione, sviluppato in particolare da Elliott Jacques e da Isabel Menzies-Lyth[12], non si limita a considerarla come un sistema di posizioni e di ruoli gerarchici, ma ne sottolinea il carattere di apparato organizzatore degli affetti di base dei suoi membri. Essa ha, nel suo complesso, l'importante funzione di proteggere il singolo individuo da angosce depressive e persecutorie secondo due modalità principali:
- da una parte l'istituzione si configura come un sistema articolato e coerente di ruoli gerarchici sostanzialmente rigido e immodificabile, conferendo ai componenti un'identità "neutra" che deriva dalla posizione occupata e una griglia mentale di valutazione della realtà, una specie di "mente collettiva" che può svolgere una funzione vicariante di alcune funzioni mentali individuali: si evitano così le angosce derivanti da una partecipazione più "personale" e diretta;
- dall'altra parte l'istituzione offre un sistema di valori, di comportamenti codificati, di regole condivise e rinforzate dall'uso prolungato nel tempo, fungendo da deposito di proiezioni e di identificazioni.
Questi meccanismi, che svolgono sempre una funzione difensiva benefica, tendono tuttavia ad ipertrofizzarsi, determinando un malfunzionamento legato sostanzialmente all'eccesso delle operazioni di identificazione proiettiva in atto.
Queste formulazioni sono state sviluppate da Fornari[13] nella concezione dei "fantasmi collettivi condivisi", specie di fantasmi basici originari intorno ai quali si struttura ogni istituzione; essi sono carichi di valenze affettive, che rimandano alle figure del sistema familiare e, secondo la loro prevalenza nel singolo gruppo, ne orientano il linguaggio, il sistema di valori, le forme e le norme di comportamento dei membri: vi saranno quindi istituzioni primariamente fondate sull'imago paterna, altre su quella materna, sempre comunque in connessione con la fantasmatica della parentela. Le identificazioni proiettive, che si animano nelle istituzioni, non si indirizzano quindi su un ruolo o un sistema di ruoli, ma sul fantasma di base condiviso; ne consegue che la possibilità di indurre un mutamento nell'istituzione dipende dall'individuazione del fantasma e dalla limitazione del potere eccessivo che può aver assunto in un momento specifico della sua evoluzione.


[1] Eissler K.R.: Effetto della struttura dell’Io sulla tecnica psicoanalitica. Psicoterapia e Scienze Umane, 2:50-79, 1981.
[2] Gill M.M.: Psychoanalysis and exploratory psychotherapy. Journal of the American Psychoanalytic Association, 2:771-797, 1954.
[3] Gill M.M.: Teoria e tecnica dell’analisi del transfert. Astrolabio, Roma, 1985.
[4] Friedman L.: Anatomia della psicoterapia. Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
[5] Lewin K.:Principi di psicologia topologica. Editrice Universitaria, Firenze, 1965.
 
[6] Stanton A.H., Schwartz M.S.: The Mental Hospital. Basic Books, New York, 1954.
[7] Racamier P.-C.: Lo psicoanalista senza divano. Raffaello Cortina, Milano, 1982.
[8] De Martis D., Bezoari M.(a cura di): Istituzione, famiglia, équipe curante. Feltrinelli, Milano, 1978 - De Martis D., Petrella F., Caverzasi E. (a cura di): Il Paese degli Specchi. Confronto con lungodegenti manicomiali, Feltrinelli, Milano, 1980 - De Martis D., Petrella F., Ambrosi P. (a cura di): Fare e pensare in psichiatria. Relazione e istituzione. Raffaello Cortina, Milano, 1987.
 
[9] Winnicott D.W.: Le forme cliniche del transfert, Tr. it. in: Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975, pp 351-356.
 
[10] Bleger J.: Psicoanalisi del setting psicoanalitico, Tr. it. in: Setting e processo psicoanalitico (a cura di Genovese C.), Cortina, Milano, 1988, pp 243-256.
[11] Bion W.R.: Attenzione e interpretazione. Armando, Roma, 1973.
[12] Jaques E: Sistemi sociali come difesa contro l'ansia persecutoria e depressiva. Contributo allo studio psicoanalitico dei processi sociali, Tr. it. in: Nuove vie della psicoanalisi (a cura di Klein M., e coll.), Il Saggiatore, Milano, 1966, pp 609-633.
[13] Fornari F.: Per una psicoanalisi delle istituzioni. In: L'istituzione e le istituzioni. Studi psicoanalitici (a cura di Kaes e al.), Borla, Roma, 1991, pp. 116-154.

Estratto da: AMBROSI P., BARALE F., UCELLI S.: Psicoanalisi, psicoterapia psicodinamica, psicoterapie analitiche brevi, psicoterapia supportiva,. In: Professione Medico. Volume 8, UTET, Torino, 1999, pp. 609-631.

Psicoterapie Psicoanalitiche Brevi

 
La psicoterapia analitica breve ha conosciuto una vasta diffusione negli ultimi 20 anni. Il suo successo si può attribuire in parte alla preoccupazione di evitare la durata sempre più lunga dei trattamenti analitici, già paventata da Freud in Analisi terminabile e interminabile (lo stesso Freud, a un certo punto, fissò il termine dell’analisi dell’Uomo dei Lupi). Ferenczi fu tra i primi a cercare di abbreviare la durata della terapia psicoanalitica, contrapponendo alla tecnica classica, di “attesa”, una tecnica “attiva”, che comportava sia metodi “restrittivi”, come proibizioni, limitazioni, suggerimenti su comportamenti della vita quotidiana, sia metodi “riparativi”, consistenti in manifestazioni concrete di affetto per il paziente. Rank, sulla base del suo concetto di “trauma della nascita”, che viene rivissuto nel transfert, stabiliva in anticipo la data di conclusione della terapia per focalizzare l’analisi dell’angoscia di separazione.
Un ulteriore impulso allo sviluppo delle terapie brevi è stato fornito, soprattutto negli Stati Uniti, dalla seconda guerra mondiale; le reazioni emotive intense prodotte dalle vicende belliche, sia nella popolazione sia nell’esercito, promossero lo sviluppo di interventi psicoterapici d’urgenza. A questo periodo risale la prima opera dedicata alle psicoterapie analitiche brevi da Alexander e French[1] (1946), nella quale si enfatizzano nuovi fattori terapeutici, come l’”esperienza emozionale correttiva”. Le ricerche sulle psicoterapie brevi sono poi confluite nello sviluppo degli interventi di crisi, ad opera di Caplan, Bellak e Small, che sono stati i pionieri della psichiatria sociale e del movimento di deistituzionalizzazione che ha portato alla chiusura dei manicomi e all’apertura si servizi psichiatrici territoriali ambulatoriali. Si deve a Bellak la formulazione della psicoterapia breve d’emergenza, limitata a 6 sedute.
Queste prime esperienze erano caratterizzate essenzialmente dall’eclettismo e dalla flessibilità della tecnica terapeutica, che doveva adattarsi alla personalità del paziente ed aiutarlo a risolvere i problemi reali della vita quotidiana; per realizzare questi obiettivi si suggeriva di modificare la tecnica analitica standard, ricorrendo a metodi più diretti, modificando la frequenza delle sedute, dando consigli e direttive al paziente su comportamenti e decisioni da prendere nella vita reale. Gli autori ritenevano tuttavia che tutte queste modifiche non differenziassero sostanzialmente la tecnica utilizzata da quella analitica classica. L’ingenuità di queste prime formulazioni suscitò la reazione indignata dei fautori della definizione rigorosa della specificità della tecnica analitica. Ne è derivato un processo di riflessione critica sui rapporti tra psicoanalisi e psicoterapia, cui si accennava prima, mirante a delineare in modo rigoroso le invarianti della tecnica analitica e a caratterizzare nettamente le psicoterapie che si ispirano ad essa in relazione a questioni tecniche quali le indicazioni terapeutiche, la durata, ecc.
In questa direzione si sono mossi i pionieri della psicoterapia psicoanalitica breve, che le hanno conferito uno statuto tecnico e teorico rigoroso e consolidato: Sifneos[2] a Boston e Malan[3] a Londra, nella metà degli anni ‘50. Entrambi si propongono di restare fedeli alla tecnica analitica classica, che limita l’intervento terapeutico all’interpretazione in funzione delle dinamiche di transfert. La durata limitata della terapia richiede che tali interventi siano particolarmente serrati ed incisivi (Sifneos parla di short-term anxiety provoking psychotherapy); essi sono formulati sulla base di un’ipotesi psicodinamica centrale, specifica per ogni paziente, intorno alla quale viene focalizzata l’attenzione, trascurando selettivamente altre dimensioni.
Gli aspetti tecnici della psicoterapia psicoanalitica breve sono riassunti nelle due tabelle successive, nelle quali sono presi in esame i principali esponenti di questo movimento.

 
 
SIFNEOS
MALAN
MANN
GILLIERON
DAVANLOO
Definizione
Psicoterapia breve suscitatrice d’ansia
Psicoterapia focale
Psicoterapia limitata nel tempo
Psicoterapia breve di ispirazione psicoanalitica
Psicoterapia dinamica breve a fuoco allargato
Frequenza sedute settimanali
1
1-2
1-2
1-2
1
Durata
Definita (12-18 sedute) ma non fissata all’inizio
Definita e fissata all’inizio
Fissata all’inizio in 12 ore
Definita (3 mesi- 1 anno) ma non fissata all’inizio
definita (12-30 sedute) ma non fissata all’inizio
 
 
 
 
 
 

 
AUTORE
AVVIO DELLA TERAPIA
TECNICA UTILIZZATA
SIFNEOS
Istituzione di un “contratto” sul problema da trattare
Tecnica attiva: confronti, chiarimenti e domande che provocano ansia per motivare l’introspezione
MALAN
Formulazione di un’ipotesi psicodinamica di base
Tecnica interpretativa tradizionale più attiva, con attenzione selettiva agli elementi estranei all’ipotesi di base
MANN
Identificazione di un conflitto centrale collegato a fonti infantili da ipotesi psicodinamiche
Delusione ottimale di magiche aspettative inconsce per l’elaborazione dei significati di fine trattamento, intesi come ripetizione nel transfert di precedenti separazioni
GILLIERON
Formulazione di un’ipotesi psicodinamica semplice, che riassume la problematica attuale del pz. in funzione del suo passato
Libere associazioni, con particolare attenzione a manifestazioni transferali collegate alla modificazione del setting
DAVANLOO
Identificazione di un nucleo conflittuale, che potrebbe spiegare i disturbi del pz., formulato in termini “edipici”
Confronto attivo con le resistenze per mobilitare emozioni prevalentemente aggressive dalle quali il paziente si difende e ricercare i veri sentimenti che si nascondono dietro

 
Questo apparato tecnico richiede una rigorosa selezione dei pazienti, per cui viene dedicata una grande attenzione al tema delle indicazioni e controindicazioni al trattamento; la tabella successiva riassume i principali criteri adottati da tre esponenti di questo movimento: come si può vedere, non vengono utilizzati i tradizionali criteri clinico/diagnostici, mentre viene data priorità ad aspetti motivazionali e, in sostanza, di adattabilità all’apparato tecnico utilizzato.
 
MALAN
SIFNEOS
GILLIERON
Forte desiderio di cambiare attraverso una migliore conoscenza di sé
Forte motivazione al cambiamento, riconoscendo i sintomi come psicologici e mostrando tendenza all’introspezione
Motivazione al cambiamento e non ricerca di sostegno
Possibilità di identificare un conflitto focale
Capacità di esplicitare con chiarezza il problema principale fin dalla prima seduta
Capacità di insight, valutata mediante interpretazioni di prova al primo colloquio
Possibilità di fornire interpretazioni che collegano i movimenti transferali alle imago genitoriali
Capacità di entrare in relazione flessibile con il terapeuta e di esprimere liberamente i propri sentimenti in occasione del primo incontro
Impatto del setting sul funzionamento psichico: il setting non deve essere denegato né messo al servizio delle resistenze
Assenza di un’anamnesi psichiatrica “pesante”
Presenza, in anamnesi, di una relazione affettiva significativa nella prima infanzia
 
Capacità di esprimere i propri sentimenti
Intelligenza superiore alla media e prove evidenti di differenziazione psicologica
 
 

 
A questo proposito esistono due posizioni differenti, che si riscontrano anche nei principali esponenti di questo movimento:
- posizione “conservatrice”: si tratta di una tecnica terapeutica di efficacia più limitata rispetto alla psicoanalisi, indicata per certi pazienti e in certe situazioni cliniche o istituzionali, mirante prevalentemente a ristabilire il funzionamento precedente alla comparsa dei sintomi. Da questo punto di vista il limite di tempo non si potrebbe considerare come un parametro nel senso di Eissler; saremmo cioè nel campo della psicoanalisi applicata, ossia dell’applicazione dei principi psicoanalitici a situazioni cliniche o istituzionali differenti da quelle classiche.
- posizione “rivoluzionaria”: siamo di fronte a una vera e propria terapia psicoanalitica, che mira ad ottenere cambiamenti profondi nel paziente e che si applica a una vasta gamma di condizioni cliniche; si colloca quindi sullo stesso piano della psicoanalisi, ma con una diversa teoria della tecnica, che permette di accorciare la durata del trattamento.
Senza addentrarci nel merito degli argomenti portati a sostegno di ciascuna di queste due posizioni, ci limitiamo a sottolineare che essi ripropongono i problemi affrontati a proposito della specificità della psicoterapia psicodinamica rispetto alla psicoanalisi. Nel caso di questo tipo di psicoterapie, si può osservare che i principi tecnici che le caratterizzano - la maggior “attività” del terapeuta, la focalità della cura - si possono configurare prevalentemente come variazioni quantitative di aspetti che abbiamo descritto a proposito delle psicoterapie psicodinamiche.
Il vero aspetto caratterizzante di queste psicoterapie è rappresentato dal cosiddetto time-limit setting, ossia dalla decisione a priori di stabilire una data per la fine della terapia; esso viene giustificato variamente dai principali esponenti di questo movimento:
- far emergere fin dall’inizio le dinamiche di separazione/individuazione e di perdita;
- rinforzare l’indipendenza e l’autostima, trasmettendo un messaggio di speranza e di fiducia in una guarigione possibile;
- evitare di sprecare tempo e sedute, ribadendo l’elemento di realtà che l’analisi ha una fine.
A ben vedere, tuttavia, si tratta di motivazioni teoriche e cliniche che sono state affrontate all’interno sia della psicoanalisi sia della psicoterapia psicoanalitica, promuovendo una riflessione critica sul processo terapeutico e sul setting che ha prodotto una vasta gamma di accorgimenti tecnici. Tra questi, la limitazione temporale della terapia rappresenta forse la soluzione che offre il più alto grado di “provocazione”, che dev’essere raccolto con la massima attenzione, se non altro perché le psicoterapie sono nate proprio per realizzare obiettivi i cui profili possono essere definiti e confermati solo da un limite temporale preciso. L’importanza di questa dimensione temporale immanente alla psicoterapia impone tuttavia la consapevolezza di alcune precauzioni inerenti alla sua gestione, che sembrano particolarmente pertinenti nel caso della psicoterapie analitiche brevi:
- innanzitutto, la brevità non può essere un artificio escogitato per aggirare difficoltà tecniche, consentendo una presunta facilità di apprendimento che si presterebbe a soddisfare esigenze di “mercato”, rispondendo, ad esempio, alla sempre maggiore richiesta di “psicoterapia” che si rivolge ai servizi psichiatrici territoriali;
- la presunta facilità si riferisce infatti a processi tutt’altro che semplici, come l’identificazione del nucleo conflittuale centrale o “focale” fin dal primo colloquio; occorre essere consapevoli del rischio di fraintendimenti generati da fantasmi inconsci sia del paziente sia del terapeuta, tali da rendere altamente problematica la loro decifrazione a partire dalle trasformazioni e dai camuffamenti che subiscono nel momento di tradursi in formulazioni linguistiche esplicite; in questo senso appare significativa la proposta di Gillieron[4] di utilizzare il setting, soprattutto quello istituzionale, quale strumento indispensabile per facilitare questo processo di decodifica;
- la definizione anticipata della fine della terapia sembra motivata principalmente ad esorcizzare il fantasma dei bisogni narcisistici di dipendenza, i quali costituiscono una realtà che intesse la vita psichica non solo del paziente ma anche del terapeuta; l’opzione che debbano essere contrastati fin dall’inizio, per evitare che inducano fenomeni regressivi tali da impedire di terminare la terapia in tempi ragionevoli, richiede pertanto un’attenta valutazione delle dinamiche emotive presenti in entrambi i membri della relazione terapeutica. In questo senso le problematiche delle psicoterapie brevi si articolano dialetticamente con quelle della psicoterapia di sostegno.
 


[1] Alexander F., French T. et al.: Psychoanalytic Therapy: Principles and Applications. Ronald Press, New York, 1946.
[2] Sifneos P.F.: Psicoterapia breve e crisi emotiva. Martinelli, Firenze, 1982.
[3] Malan D.H.: Psicoterapia in pratica. Cappelli, Bologna, 1981.
[4] Gilliéron E.: Aux confins de la psychanalyse. Psychothérapies analytiques brèves. Payot, Paris, 1983.

Estratto da: AMBROSI P., BARALE F., UCELLI S.: Psicoanalisi, psicoterapia psicodinamica, psicoterapie analitiche brevi, psicoterapia supportiva,. In: Professione Medico. Volume 8, UTET, Torino, 1999, pp. 609-631.

Psicoterapia di Sostegno

 
La psicoterapia di sostegno, detta anche di appoggio o supportiva, è stata a lungo considerata una forma minore di psicoterapia rispetto ad altre di vari orientamenti teorici. Questa visione è mutata all’inizio degli anni ‘50 in seguito al dibattito, cui si accennava prima, sui rapporti tra psicoanalisi e psicoterapia psicodinamica e sulla natura della loro azione terapeutica. In questo contesto Alexander[1] assunse una posizione radicale distinguendo due categorie fondamentali di procedure psicoanalitiche: la psicoterapia supportiva e la psicoterapia di disvelamento: “L’unica distinzione obiettiva è quella tra metodi finalizzati prima di tutto al sostegno e metodi finalizzati prima di tutto al disvelamento”. Tra la psicoterapia di disvelamento e la psicoanalisi vi sarebbero solo differenze quantitative nell’utilizzo della procedura fondamentale consistente nell’interpretazione finalizzata all’insight. Le procedure di appoggio consistono invece in:
 
PROCEDURE DI APPOGGIO SECONDO ALEXANDER
1) Gratificazione del bisogno di dipendenza
2) Abreazione per ridurre lo stress emotivo
3) Pareri razionali
4) Appoggio alle difese nevrotiche necessarie
5) Intervento attivo sulle situazioni di vita
 
Nello stesso periodo Gill[2], in contrapposizione ad Alexander, differenziava nettamente la psicoanalisi - la sola che induce una nevrosi regressiva di transfert completa e che porta alla sua completa risoluzione utilizzando unicamente la tecnica dell’interpretazione - dalla psicoterapia psicodinamica, distinguendo nell’ambito di questa tra psicoterapia espressiva, nella quale l’analisi delle difese è il primo passo verso la definitiva integrazione e psicoterapia supportiva:
 
PSICOTERAPIA SUPPORTIVA SECONDO GILL
1) Favorire combinazioni adattive di impulsi e difese e scoraggiare combinazioni non adattive
2) Evitare di scoprire e interpretare costellazioni di difese essenziali per l’equilibrio psichico del paziente
3) Selezionare le interpretazioni usando, ad esempio, le c.d. “interpretazioni scorrette” di Glover che offrono una parziale scarica di derivati pulsionali, facilitando il lavoro della difesa
 
Questa impostazione, fondata sui principi della scuola americana della Psicologia dell’Io, ha avuto un ampio successo ed ha ispirato la tendenza a differenziare nettamente la psicoterapia di sostegno da quella psicodinamica sulla base del significato adattativo delle difese: si riteneva infatti che il sostegno richiedesse il rafforzamento delle difese e la repressione dei conflitti, a differenza della psicoterapia analitica, che mira alla loro piena espressione per potenziare la consapevolezza e l’insight del paziente; ciò al fine di permettere una modificazione della struttura psicoaffettiva, che sola può garantire l’efficacia del trattamento e la sua tenuta nel tempo. Questa distinzione si associava a una diversità di indicazioni: quella psicodinamica più adatta a disturbi nevrotici e di personalità o a strutture psicotiche non ancora cristallizzate e irrigidite, per le quali sarebbe invece più indicata la psicoterapia supportiva. Questa impostazione implica una netta distinzione degli obiettivi delle due forme di psicoterapia, illustrati schematicamente nella tabella successiva.

 
OBIETTIVI DELLA PSICOTERAPIA PSICODINAMICA E DELLA SUPPORTIVA
PSICOTERAPIA PSICODINAMICA
PSICOTERAPIA DI SOSTEGNO
Acquisizione dell’insight
Aiutare il pz. ad adattarsi alle frustrazioni evitando l’insight per quanto concerne le difese e i desideri inconsci
Risoluzione del conflitto e riduzione delle difese
Rafforzamento delle difese per migliorare la capacità adattiva e far fronte alle difficoltà della vita quotidiana
Miglioramento della qualità delle proprie relazioni oggettuali
Reintegrare il pz. a un livello di funzionamento precedente, compromesso da una crisi
Rafforzamento della coesione del Sé
Rafforzamento dell’Io
 
La progressiva estensione delle indicazioni al trattamento analitico e psicoterapico ad un’ampia gamma di condizioni cliniche ha determinato una riflessione critica sull’importanza e sul ruolo dei meccanismi supportivi
Il progetto di ricerca sulla psicoterapia, avviato da Wallerstein[3] nel 1954 alla Menninger Foundation, con lo scopo di seguire il corso del trattamento di un gruppo di pazienti, metà trattati con la psicoanalisi e metà con un tipo di psicoterapia psicoanalitica, sia espressiva sia supportiva, ha consentito osservazioni prolungate nel tempo, anche fino a 30 dopo la conclusione del trattamento. Sulla base dei risultati di questa ricerca l’autore evidenzia alcuni meccanismi supportivi, che non sono limitati alla psicoterapia di sostegno, ma presenti in misura variabile sia nella psicoterapia supportiva sia nella psicoanalisi:

 


MECCANISMI SUPPORTIVI SECONDO WALLERSTEIN
1) Evocazione e solido stabilirsi di un rapporto di transfert positivo e dipendente (non interpretato e non analizzato in modo significativo) che consente un qualche livello di gratificazione conscia o inconscia di bisogni o desideri molteplici e conflittuali.
2) Trasferimento dell’attaccamento e della gratificazione transferale all’interno della situazione di vita abituale del paziente.
3) Incoraggiamento a trasferire all’interno della situazione terapeutica, nel transfert, la nevrosi, con una diminuzione delle manifestazioni esterne delle difficoltà di funzionamento e/o dei sintomi.
4) Cambiamento realizzato per sfida e come acting-out contro il terapeuta: il paziente modifica il proprio comportamento sulla base o in conseguenza di aspettative del terapeuta, che percepisce dirette nel senso opposto.
5) Esperienza emozionale correttiva, definita in modo più ristretto rispetto ad Alexander e French: fornire una figura amichevole, comprensiva, orientata alla realtà - il terapeuta - che può rispondere al comportamento transferale del paziente con neutralità, senza cioè sforzarsi di proporre un ruolo opposto alle sue aspettative, che potrebbe rinforzare le dinamiche relazionali che sostengono la sofferenza nevrotica.
6) Test di realtà e rieducazione: ruolo diretto del terapeuta nella trasmissione di suggerimenti, informazioni e un approccio educativo che si accorda con gli standard comportamentali e con le aspettative sociali medie.
7) Intervento attivo su condizioni di vita del paziente per favorire il disimpegno temporaneo o permanente da situazioni di vita sfavorevoli o nocive.
8) Patto collusivo: accordo tacito od esplicito di escludere dall’indagine terapeutica aree particolari del funzionamento della personalità e/o problemi o sintomi, in cambio della determinazione del paziente a realizzare un certo numero di cambiamenti concordati e sostanziali in altre aree.
9) Trasferire il transfert verso favorevoli circostanze di vita o altri supporti psicologici alternativi, spesso scelti dal paziente contro il parere del proprio terapeuta.
 
In questa prospettiva la differenza tra psicoterapia di sostegno e psicoterapia psicodinamica è più sfumata e rimanda principalmente alle tecniche impiegate. A questo proposito si può osservare che l’estensione delle indicazioni della psicoterapia psicodinamica a una gamma sempre più vasta di condizioni cliniche comporta paradossalmente che si cerchi di ridurre il più possibile il ricorso alle tecniche di sostegno, pur riconoscendo a queste un alto gradiente sia di difficoltà tecnica sia di rilevanza terapeutica.
Questa tendenza è esemplificata dalla posizione di Kernberg[4], che si è occupato ampiamente di condizioni cliniche “gravi”, in particolare di pazienti borderline. Nel distinguere la psicoterapia di sostegno da quella espressiva, egli rileva che la prima “non usa l’interpretazione, usa parzialmente la chiarificazione e l’abreazione e soprattutto la suggestione e l’intervento ambientale; il transfert non va interpretato, anche se il terapeuta deve mantenersi intensamente consapevole delle sue manifestazioni e dei suoi sviluppi; la neutralità tecnica è eliminata dall’uso della suggestione e dall’intervento ambientale”; per questo motivo è “indicata come estrema risorsa, vale a dire quando si devono escludere le altre modalità di trattamento”; nonostante ciò, e proprio per questo, essa è tutt’altro che “facile”: “Idealmente si dovrebbe apprendere la terapia di sostegno quando si possiede una solida base nella terapia espressiva”.
La presunta “facilità” della psicoterapia di sostegno è smentita da fattori opposti e speculari rispetto a quelli che intervengono nelle psicoterapie brevi:
- innanzitutto la gravità psicopatologica dei casi in cui viene indicata, che tende a risolvere le esigenze di sostegno con ostentazioni di benevolenza, la cui natura autogratificante impedisce di coglierne i risvolti svalutanti ed ostili, che finiscono con il conseguire un risultato opposto al supporto;
- la necessità di limitare le tecniche interpretative implica la difficoltà di portare alla luce le costellazioni difensive e le resistenze, la cui gestione richiede perciò un bagaglio tecnico ed un’esperienza assai ampio e variegato;
- l’accorgimento di limitare le interpretazioni di transfert si trasforma spesso nell’imperativo di ignorarle, con il rischio di produrre una graduale distorsione del rapporto terapeutico; ne deriva una connivenza silenziosa tra il paziente e il terapeuta riguardo ad aree conflittuali centrali, assecondando meccanismi di scissione e di passaggio all’atto da parte del paziente nella vita esterna; si verifica così un’evenienza tutt’altro che rara, ossia lo sviluppo di un rapporto terapeutico cronico, che si presenta come amichevole in superficie, ma essenzialmente distante e freddo, mentre tutto accade “altrove”, nella vita quotidiana del paziente
- anche il tentativo di ignorare gli aspetti negativi del transfert, per favorire l’idealizzazione del terapeuta - aggirando l’organizzazione patologica della personalità - e rafforzarne l’Io, può produrre distorsioni altrettanto gravi; si trascura, infatti, che la percezione del terapeuta da parte del paziente è spesso deformata da proiezioni inconsce, che alimentano un transfert che contiene comunque aspetti negativi, malgrado gli sforzi del terapeuta di “occultarli” con varie misure “pacificatorie”; esso si manifesta allora in modo imprevedibile e con una veemenza inaspettata nelle occasioni più “innocue”, ad esempio quando si cerca di introdurre il trattamento psicofarmacologico nella psicoterapia, sia assumendolo in proprio, sia delegandolo ad un altro.
La possibilità di gestire queste dinamiche, senza il supporto dei tradizionali mezzi interpretativi, rimanda all’utilizzo di quell’insieme di meccanismi psichici complessi che gravitano intorno ai concetti di controtransfert e di identificazione proiettiva, intesi non solo come fenomeni patologici di significato difensivo, ma come strategie adattative che contengono un alto valore di comprensione delle dinamiche economiche e relazionali in gioco e delle condizioni necessarie alla loro gestione. In questo senso appare significativa la conclusione cui giunge Wallerstein al termine della lunga ricerca sull’efficacia della psicoterapia con pazienti gravi, quando afferma che i risultati migliori sono stati ottenuti sia con la psicoterapia espressiva sia con quella supportiva; ma entrambe devono essere opportunamente adattate rispetto alle finalità originarie e “gli ingredienti del trattamento devono essere mescolati in modo sufficientemente abile e creativo, in modo da assicurare anche la gestione effettiva della vita del paziente durante la cura, ad esempio mediante l’ospedalizzazione in cliniche a orientamento psicoanalitico”.
Queste considerazioni “pragmatiche” sottolineano l’esigenza di ricorrere, per assicurare le funzioni complesse di cui si parlava prima, inerenti alla psicoterapia sia espressiva sia supportiva, ad un ampliamento del setting terapeutico, fino ad includere le istituzioni ospedaliere, che sono in grado di adempiere in modo più ampio ed esaustivo alle necessità di “sostegno” e di contenimento richieste dall’estensione delle indicazioni della psicoterapia alle condizioni cliniche più gravi. Siamo così rimandati al tema delle “qualità psicoterapiche” dell’istituzione psichiatrica, che ha avuto un notevole impulso negli ultimi 50 anni, contemporaneamente al dibattito sulla natura e la specificità della psicoterapia psicodinamica, sia espressiva sia supportiva, di cui abbiamo ampiamente parlato nelle pagine precedenti.


[1] Alexander F.: Psychoanalysis and Psychotherapy. Norton, New York, 1956.
[2] Gill M.M.: Ego Psychology and Psychotherapy. Psychoanalytic Quarterly, 20:67-71, 1951.
[3] Wallerstein R.S.: Psicoanalisi e psicoterapia. Franco Angeli, Milano, 1993.
[4] Kernberg O.F.: La psicoterapia di sostegno. In: Disturbi gravi della personalità. Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pp. 171-190.

Estratto da: AMBROSI P., BARALE F., UCELLI S.: Psicoanalisi, psicoterapia psicodinamica, psicoterapie analitiche brevi, psicoterapia supportiva,. In: Professione Medico. Volume 8, UTET, Torino, 1999, pp. 609-631.
Studio Ambrosi/Cassani

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